METTERE DIO AL CENTRO

Parole di Benedetto XVI alla Chiesa in Svizzera


Dal 7 al 9 novembre 2006 Papa Benedetto XVI ha incontrato, a conclusione della loro Visita ad limina, i vescovi svizzeri. In questo volume sono raccolte le sue parole accompagnate da alcuni commenti. Viene così messo in luce come il Papa, pur accennando a questioni particolari, proprie della Chiesa in Svizzera, abbia chiaramente voluto sottolineare l'importanza di "mettere Dio al centro" di ogni impegno ecclesiale.
Ciò si traduce nella priorità della fede, nella necessità del rapporto personale con Gesù Cristo, nel modo di intendere la liturgia e di affrontare le grandi questioni morali e pastorali del nostro tempo.

SOMMARIO

Alcuni obiettivi pastorali
Ser Mons. Pier Giacomo Grampa

1.  Proporre la Parola di Dio in modo vivo ed attuale

2.  Rinnovare la catechesi

3.  Imparare di nuovo il Sacramento della Penitenza

4.  Aprire le Chiese locali a quella universale

5.  Impegniamoci insieme in Europa per la grande eredità cristiana

6.  Superare una falsa concezione della libertà

7.  Far apparire il cristianesimo non come semplice moralismo, ma come dono

Ripensando alla intensa esperienza della Visita ad limina vissuta con i miei confratelli Vescovi svizzeri e rileggendo le parole che il Papa ci ha rivolto vorrei qui proporre alcuni obiettivi pastorali nel segno di una FEDE ad un tempo INTELLIGENTE e DEVOTA. Sono persuaso che taluni problemi della Chiesa in Svizzera nascano proprio da questo non risolto rapporto.

1.  Proporre la Parola di Dio in modo vivo ed attuale

Di che cosa ha bisogno l’uomo nostro contemporaneo, cosa deve attendere dalla Chiesa in un contesto di bombardamento massmediatico, in un mondo dove non mancano certo le cose, le mille cose, ma forse si va sempre più smarrendo il loro senso?
Ciò di cui oggi si percepisce sempre più la necessità è un messaggio chiaro, semplice, essenziale, ma fondamentale, che faccia ritrovare le ragioni profonde del vivere, che motivi il senso del nostro cammino, che illumini il traguardo del nostro esistere.
Non dimenticherò più il pianto dirotto di Sebastiano, un ragazzo di dieci anni, che durante una visita pastorale, avendo l’opportunità di porre una domanda al Vescovo, rotto dall’emozione e dalle lacrime gli chiese: è vero quello che mi dicono i miei genitori, che dopo la morte c’è il Paradiso? Nel pianto di Sebastiano, nella sua domanda carica d’angoscia, c’era l’unica domanda che dà senso all’esistere: Perché vivo? Dove vado? Quindi come devo vivere? Qual è il senso del mio vivere? Non di tante chiacchiere ha bisogno l’uomo, ma di avere la risposta a questi interrogativi che cercano il senso del suo esistere. Le indicazioni che il Santo Padre, Benedetto XVI, ha offerto ai Vescovi svizzeri, durante la Visita ad limina, offrono la risposta e quindi meritano di essere riprese nelle loro linee fondamentali, perché divengano guida alla nostra azione pastorale.
Gli uomini nostri contemporanei non si aspettano da noi prescrizioni, regole, comandamenti, ma l’annuncio luminoso, la riproposta del messaggio di Dio amore, che ha posto in atto un avvenimento, ha costruito una storia insieme a noi.
Occorre saper riproporre questa storia, come è contenuta nelle Sacre Scritture, ma cogliendone il cuore, non fermandosi ad un approccio storicistico, bensì entrando dentro la profondità del mistero che ci avvolge e dovrebbe coinvolgerci.
Non si tratta solo di conoscere il passato della storia di Dio con l’umanità, ma di afferrarne il valore presente e coinvolgente, la sua attualità per noi. Quando Gesù nella Sinagoga di Nazareth legge il rotolo di Isaia, commenta dicendo: «Oggi, questa parola si compie». Se non avviene questo incontro nell’oggi con la Scrittura, nella fede della Chiesa, la sua conoscenza ed il suo studio restano un esercizio accademico, magari colto ed aggiornato, ma freddo, distante, non coinvolgente, non interessante.
Dobbiamo fare nostro il metodo di comunicazione indicatoci da Giovanni all’inizio della sua prima lettera: «Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunciamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la vostra gioia sia perfetta» (1 Gv 1,1-4).
Con le sue indicazioni il Papa vuole invitarci a comprendere che comunicare il messaggio cristiano è ben più che fare uno scambio di informazioni, una trasmissione di notizie e di dati: l’autentica comunicazione istituisce una relazione personale, è incontro e dialogo nel quale mettiamo in gioco noi stessi, il senso di quello che siamo e facciamo.
La Parola della Scrittura è parola che comunica il vero volto di Dio, che, soprattutto attraverso i gesti e le parole di Gesù, guarisce le ferite dell’uomo, sconfigge le paure e le angosce, ci libera da ogni forma legalistica di religione, scruta il cuore e riempie la vita, apre nuovi atteggiamenti umani di dedizione e di responsabilità, è continuamente suscitata dallo Spirito, realizza la pregnante espressione di Ireneo, quando scrive: «Gloria enim Dei vivens homo, vita autem hominis est visio Dei» (IV Libro, cap. 20,5-7). La gloria di Dio è che l’uomo viva, ma la vita dell’uomo è la visione-comunione con Dio.
Il Papa non si spinge ad indicare metodi e strade concrete per raggiungere questo traguardo; forse noi, seguendo le indicazioni di un maestro competente, il cardinale Carlo Maria Martini, possiamo ricordare le due modalità attraverso le quali è possibile proporre la parola di Dio in modo vivo ed attuale. È la Lectio divina.
La prima, quella classica, parte dal testo per arrivare alla trasformazione del cuore e della vita secondo lo schema:
lettura - meditazione - orazione - contemplazione - azione.
La seconda parte dai fatti della vita per comprenderne il significato ed il messaggio alla luce della Parola di Dio. I suoi momenti possono essere espressi nelle due domande: come si rivela la presenza di Dio in questo fatto? Quale invito il Signore mi rivolge attraverso di esso? Una variante di questo metodo è il trinomio: vedere – giudicare – agire, dove il giudicare significa comprendere il fatto alla luce della parola di Dio e l’agire va confrontato con gli imperativi del Vangelo.
In particolare per riproporre in modo vivo ed attuale la Parola di Dio vale la pena di ricordare i cinque momenti, in cui si articola la lettura spirituale della Sacra Scrittura.
La lettura e la rilettura del testo (lectio): per capirecosa significa, quali i soggetti, le azioni, i verbi, gli elementi. Bisogna fare una lettura parola per parola, sottolineando.
La meditazione (meditatio):si riprende il testo per coglierne il messaggio nell’oggi. Nella lectio ci si chiede che cosa il testo dice in sé; nella meditatio che cosa dice a me oggi, nel mio contesto.
La preghiera (oratio): ci si serve delle parole, situazioni, sentimenti del testo per esprimere a Dio la preghiera e preparare il momento più alto della lectio.
La contemplazione (contemplatio) nel silenzio. Consiste nel dialogare con Gesù che mi parla nel testo, nel fermarmi davanti a lui che mi parla, ringraziarlo, offrirmi a lui, chiedere perdono, luce e forza. Si concretizza in tre atteggiamenti: la consolatio nel senso di presenza dello Spirito che anima e dà una sensazione di pienezza, producendo la discretio e la deliberatio cioè il discernimento dello Spirito che mi fa decidere dopo aver capito ciò che il Signore vuole da me.
L’azione (actio). Che cosa mi chiede di fare il testo, come azione semplice, simbolica o come esame di me in questo momento?
La fede nasce dall’ascolto, ci ricorda l’apostolo: «Fides ex auditu». Non solo un ascolto che susciti l’esercizio dell’intelligenza, ma un ascolto che apra a un dialogo orante con Colui che nella parola si rivela a me e chiede d’essere testimoniato da una vita coerente, da un esempio vissuto. Così, nell’esercizio della lectio divina la fede è insieme esercizio intelligente e devoto, è comprensione e dialogo orante.
Non portiamo un messaggio nostro, ma un dono ricevuto, una notizia rivelata che dobbiamo sempre riscoprire, approfondire, rivivere con pienezza. Non abbiamo ricchezze umane, tesori terreni, beni materiali, ma questo tesoro fragile della comunicazione della Parola di Dio: luce, lievito e sale, con il quale rispondere ai nostri interrogativi, colmare le domande più profonde del nostro cuore, convertire e rinnovare la nostra coscienza nella forza trasformante dello Spirito di Dio. La Parola ci porta l’annuncio che il Verbo fatto carne è morto per tutti, perché «quelli che vivono, non vivano più per se stessi, ma per Colui che è morto e risuscitato per loro… Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuova, le cose vecchie sono passate, ecco ne sono sorte di nuove» (2 Cor 5,15-17).
Occorre ripartire dalla Scrittura, ritornare alla Parola di Dio, Parola di vita e di immortalità, di perenne valore e di riferimento indispensabile, se vogliamo essere, restare e crescere da cristiani. Il primato va alla Parola di Dio. In un suo intervento il Card. Carlo Maria Martini sostiene, con lucido argomentare, che la Bibbia è il libro dell’Europa, perché «non è soltanto il libro che riporta le tradizioni del popolo ebraico e quelle delle origini del cristianesimo, ma è anche libro del passato dell’intera storia europea, come hanno riconosciuto tutti i grandi spiriti europei». Cita a questo riguardo Goethe («la lingua materna dell’Europa è il cristianesimo»); Kant («il Vangelo è la fonte da cui è scaturita la nostra civiltà»); Nietzsche («per noi Abramo è più di ogni altra persona della storia greca o tedesca. Fra ciò che sentiamo alla lettura dei Salmi e ciò che proviamo alla lettura di Pindaro o Petrarca c’è la stessa differenza che esiste tra la patria e la terra straniera»). Ricorda che Claudel definiva la Bibbia il «grande lessico» e che Chagall parlava dell’«alfabeto colorato della speranza» corrispondente alle Sacre Scritture. Ma il cardinale afferma pure che la Bibbia «è anzitutto il libro del futuro dell’Europa perché nelle sue pagine noi riconosceremo sempre di più le nostre radici e potremo trovare in essa le motivazioni per camminare insieme come grande popolo europeo». Infatti «sarà sempre di più necessario dire verità forti e sincere sull’uomo, sulla sua vita e sul suo destino, partendo dalle parole della Bibbia che derivano dalla stessa verità di Dio. Sarà necessario dire Dio all’uomo contemporaneo con un linguaggio chiaro e comprensibile, che esprima e la sua trascendenza e il suo amore per l’umanità, e il bisogno dell’uomo di ogni tempo di riposare in lui. La Bibbia contiene queste parole».

2.  Rinnovare la catechesi

Questi anni di grande impegno nella trasmissione della fede hanno fatto maturare con sempre maggiore chiarezza la distinzione tra il momento «culturale» della conoscenza che si realizza soprattutto in contesto scolastico, da quello più propriamente catechetico che deve avvenire in ambito ecclesiale collegato con il cammino della iniziazione cristiana e la progressiva celebrazione dei Sacramenti che la connotano.
Il Santo Padre sembra richiamarci soprattutto al rinnovamento della catechesi in ambito ecclesiale.
Per dare concretezza alle sue richieste ritengo si debba ridisegnare la figura del catechista che deve essere al tempo stesso testimone e maestro, profeta e amico. Anche nella figura del catechista l’intelligenza della fede e la sua esperienza «devota» sono chiamate a saldarsi.
Testimone, cioè un segno visibile del Mistero: «è colui che ha visto, toccato con mano» e quindi trasmette agli altri quello che ha ricevuto dalla viva Tradizione della Chiesa. Il catechista non è chiamato a trasmettere parole sue, ma ad essere profeta, cioè uno che parla in nome di Dio, trasmettendone fedelmente la Parola, capace di usare il linguaggio dei simboli, dei segni, di leggere nel segno (in-segno).
Ma proprio perché chiamato a trasmettere una Parola che non è solo contenuto dottrinale, ma è la Persona stessa di Cristo – Lui è la rivelazione e il Rivelatore – il catechista deve svolgere il suo compito con affetto, con partecipazione viva, prendendo a cuore la sua missione come espressione dell’amore di Dio. Deve essere testimone del suo credere.
Fin dai tempi apostolici la catechesi è trasmissione non solo di un contenuto dottrinale, di ciò che uno sa, ma di quello che uno vive nell’appartenenza alla comunità della Chiesa: il catechista non svolge una missione privata, individuale, ma trasmette sempre la fede della Chiesa.
Proprio perché la catechesi non si esaurisce in un compito dottrinale il catechista è chiamato a farsi carico dell’educazione alla fede dei suoi fratelli: è maestro e insieme amico, quasi fratello/sorella maggiore. La sua competenza deve essere catechetica, cioè preoccupata e capace non solo di trasmettere con intelligenza le verità della fede, ma anche di integrare la fede con la vita. Per questo tra le sue competenze non può mancare una qualche conoscenza psico-pedagogica per favorire il passaggio nel vissuto di quanto si comunica nella mente e nel cuore.
Come far riconoscere gli eventi, i fenomeni quali segni di qualcos’altro, della realtà di Dio? Come spiegare con parole comprensibili il contenuto dei segni, per percepire la presenza di Colui che opera quei segni? Viene da qui la necessità di inventare segni per insegnare. Ma se il segno non comunica il contenuto, il Mistero che contiene, la grazia che dona, se non riesce ad attivare il dialogo con il divino, invisibile, interlocutore, la catechesi non può dire di avere raggiunto il suo scopo.

3.  Imparare di nuovo il Sacramento della Penitenza

Mentre non restiamo certamente insensibili di fronte alla crisi che il Sacramento della Penitenza ha conosciuto in questi ultimi cinquant’anni, che hanno visto una progressiva diminuzione della pratica di questo sacramento, dobbiamo anche riconoscere che si è percepito meglio il dinamismo della conversione, che non si racchiude in un atto singolo, ripetuto, ma in un cammino progressivo e continuo di approfondimento.
«Convertitevi e credete al Vangelo» (Mc 1,15), dice Gesù, poiché in questo consiste la salvezza. Noi ci domandiamo se la conversione precede o segue l’adesione al Vangelo. Non ci sono dubbi che possa realizzarsi solo come conseguenza dell’ascolto e dell’adesione al Vangelo. Ma per accogliere il Vangelo occorre che l’uomo avverta il suo limite e non si chiuda in una visione antropologica autarchica, autosufficiente, autoreferenziale. Se da un punto di vista antropologico la creatura non sa avvertire il suo limite e perde la consapevolezza del peccato, non potrà percepire il bisogno del perdono e quindi la necessità di una conversione.
Deve partire da qui il lavoro di ricupero per fare apprezzare di nuovo il dono della misericordia e della salvezza.
«La diffusa mancanza di una consapevolezza della colpa è un fenomeno preoccupante del nostro tempo», ci ricorda il Santo Padre.
L’impegno primo è quello di educare le coscienze e formarle a percepire non solo il limite, ma la negatività del peccato. Occorre prestare attenzione e dedicare impegno all’educazione di una coscienza retta e sensibile, che avverta la condizione storica, decaduta della creatura. Troppe volte la prassi penitenziale è di modestissima qualità. Prevale la ripetizione di stereotipi ereditati dall’infanzia e che risolvono il peccato in qualche mancanza alla pratica religiosa. La serietà del peccato è per lo più banalizzata. C’è del vero nelle parole con le quali molti penitenti iniziano la loro confessione: «Padre, mi aiuti perché non so che cosa dire…». Apprendere la serietà del peccato vuol dire anzitutto riconoscere con gratitudine i doni di Dio posti nelle nostre mani (confessio laudis) e, alla luce di tale sconfinata misericordia, confessare le nostre colpe (confessio vitae).
La confessione è quindi gesto serio, che può trovare spazio proprio nel dialogo con il confessore. Ci si domanda se per riconquistare questo senso del peccato non occorra superare la prassi invalsa di distribuire «assoluzioni generali» non richieste da situazioni di necessità. Esse infatti finiscono per togliere la consapevolezza della serietà del peccato e per banalizzarlo in una debolezza che può coesistere con il perdono e la grazia.
I Vescovi svizzeri si impegneranno a predisporre un programma di catechesi finalizzato alla formazione di coscienze mature, adulte e responsabili, che percepiscano di nuovo in modo vivo il senso del peccato e si aprano con gioia all’incontro personale della Riconciliazione col Signore.
È importante iniziare questo impegno di rieducazione con i piccoli, i bambini, i ragazzi, e continuarlo con gli adolescenti e i giovani. Un lungo cammino ci attende per ritrovare la bellezza del Sacramento della Penitenza e rinnovare l’impegno di un’esperienza più fedele e coerente, più profonda e vera di conversione.

4.  Aprire le Chiese locali a quella universale

Mi rifaccio ad uno scritto dell’allora card. Ratzinger, in una relazione su I movimenti ecclesiali e la loro collocazione teologica (in AA. VV., I movimenti nella Chiesa, a cura del Pontificio Consiglio per i Laici, Città del Vaticano 1999), nel quale ricorda che «la successione apostolica significa anzitutto qualcosa che per noi è ovvio: garantire la continuità e l’unità della fede, e ciò in una continuità che noi definiamo ‘sacramentale’. Ma a tutto questo è legata anche un’incombenza concreta, che trascende l’amministrazione delle Chiese locali: i Vescovi ora devono curare che si continui ad attuare il mandato di Gesù, quello di fare di tutti i popoli dei discepoli suoi e di recare il Vangelo sino ai confini della terra. A loro incombe di far sì che la Chiesa non diventi una sorta di federazione di Chiese locali giustapposte le une alle altre, ma mantenga invece la sua universalità e unità. Essi devono continuare il dinamismo universale dell’apostolicità» (p. 31). Se questo non avviene, il ministero della successione apostolica può intristirsi nell’espletare servizi al mero livello di Chiesa locale, perdendo di vista e dal cuore l’universalità del mandato di Cristo; l’inquietudine che ci spinge a portare agli altri il dono di Cristo può estinguersi nella immobilità di una Chiesa più o meno saldamente sistemata.
Per dirla in termini più drastici: nel concetto di successione apostolica è insito qualcosa che trascende il ministero ecclesiastico puramente locale. La successione apostolica non può mai esaurirsi in questo. L’elemento universale, che va oltre i servizi da rendere alle Chiese locali, resta una realtà imprescindibile. La Chiesa non è un’istituzione che nasce solo dal convergere di volontà umane, ma viene continuamente ricreata dal Signore stesso quale creatura dello Spirito Santo, segno sacro, sacramento della sua presenza nella storia.
Due sono le componenti del sacramento: anzitutto il legame che vincola la Chiesa all’unicità dell’Incarnazione e dell’evento pasquale di Gesù, cioè il legame con l’agire di Dio nella storia. Ma poi, al tempo stesso, c’è il rendersi presente di questo evento per la forza dello Spirito Santo, che assicura novità e, insieme, continuità alla Chiesa viva.
Questa dimensione spirituale della Chiesa – opera dello Spirito – si manifesta nei nostri giorni anche attraverso i movimenti ecclesiali, che possono essere risposte dello Spirito Santo alle mutevoli situazioni in cui viene a trovarsi la Chiesa.
Come le vocazioni al sacerdozio non possono essere prodotte, né stabilite amministrativamente, così, men che meno, i movimenti possono essere organizzati e lanciati sistematicamente dall’autorità. Devono essere donati e sono donati. A noi tocca solo essere sollecitamente attenti a essi e svolgere il dovuto discernimento per riconoscere ciò che in essi vi è di buono e superare quanto vi è di meno adeguato. Tra i criteri da seguire per il discernimento, il card. Ratzinger indica i seguenti: il radicamento nella fede della Chiesa. Chi non condivide la fede apostolica non può pretendere di svolgere attività apostolica, che deve comprendere gli elementi che sempre l’hanno caratterizzata: obbedienza, povertà, castità. L’impegno a curare una dimensione sociale ed una personale, prestando attenzione al rischio di unilateralità, che porta ad esagerare il mandato specifico ed il carisma particolare. Non mancano certo i rischi di incomprensioni e di scontro con le comunità locali: diocesi o parrocchie. Le due parti devono lasciarsi educare dallo Spirito Santo e anche dall’Autorità ecclesiastica. I movimenti non devono assolutizzare il carisma, ma preti e Vescovi non devono pretendere uniformità assoluta nell’organizzazione pastorale. E non da ultimo occorre prestare attenzione a certi atteggiamenti di superiorità intellettuale, mentre tutti devono lasciarsi guidare col metro dell’amore per l’unica Chiesa.
Risulta dunque quanto mai opportuno il richiamo del Papa nel suo discorso inaugurale, affinché le Chiese locali si aprano alla totalità della Chiesa universale: «Tutti noi dobbiamo sforzarci continuamente di trovare in questo rapporto vicendevole il giusto equilibrio, cosicché la Chiesa locale viva la sua autenticità e, contemporaneamente, la Chiesa universale da ciò riceva un arricchimento, affinché ambedue donino e ricevano e così cresca la Chiesa del Signore».

5.  Impegniamoci insieme in Europa per la grande eredità cristiana

In un momento storico in cui l’ecumenismo conosce battute d’arresto, momenti di stasi e di fatica, le Chiese cristiane potrebbero trovare nuovi incentivi per ristabilire la piena comunione fra di loro nell’impegno a difendere i tratti cristiani in un’Europa che va estendendosi sempre più, comprendendo paesi di tradizione cattolica, protestante, anglicana ed ortodossa. Tutti ricordiamo la passione con la quale Giovanni Paolo II ripetutamente domandò che la nuova Costituzione europea riconoscesse le radici cristiane dell’Europa. Non venne ascoltato, anche se bisogna riconoscere che il testo del Trattato, all’art. 51, recita: «L’Unione mantiene un dialogo aperto, trasparente e regolare con tali Chiese e organizzazioni, riconoscendone l’identità e il loro contributo specifico». Ci sono buoni motivi da un punto di vista storico, teologico e pastorale per prospettare una maggior convergenza di tutte le Chiese a difesa della grande eredità cristiana dell’Europa. Sarebbe immenso il compito di percorrere questi duemila anni di storia per rilevare tutti i legami esistenti tra lo sviluppo storico della cultura, della vita civile e pubblica nel continente europeo e i legami possibili con il cristianesimo. Ma bisogna onestamente riconoscere che le divisioni tra i cristiani non sono certo un buon servizio reso alla causa del riconoscimento della comune eredità cristiana. L’appello del Papa Giovanni Paolo II: «Non si taglino le radici da cui si è nati» esige, anzitutto dai discepoli di Cristo, un rinnovato impegno di conversione all’unico Signore.
Persino in ideologie nate in opposizione al cristianesimo, se vengono analizzate in profondità, si scopre che alla loro base esistono alcuni valori cristiani, interpretati in modo unilaterale o riduttivo.
Da un punto di vista storico non si può non riconoscere la presenza di radici cristiane nella formazione dell’anima europea contemporanea, che tocca alle Chiese di riscoprire e di mantenere vive in dialogo costruttivo con le altre componenti ideali.
Da un punto di vista teologico l’ideale di un’Europa unita e pacifica appare – secondo l’intuizione di Paolo VI – come un valore ideale estremamente bello ed importante: «Esso risponde a una visione, che noi riteniamo moderna e saggia, dell’attuale momento storico, in cui i popoli vivono in una stretta interdipendenza di interessi tra loro; esso è pienamente conforme alla condizione cristiana dell’umana convivenza che tende a fare del mondo una sola famiglia di popoli fratelli».
I teologi si chiedono se ci sia un ruolo più specifico per le Chiese cristiane di lavorare assieme per l’unità del continente europeo e cosa si possa fare per realizzare un rapporto più stretto tra l’Europa e il cristianesimo. Ci si interroga se un progetto europeo abbia ancora oggi significato nell’emergere di una cultura universale, mondiale.
Ripropongo la risposta del teologo Karl Rahner il quale ritiene che il nostro continente debba vedere come «iscritta nel suo destino la partecipazione ad una missione storico-salvifica, che non si esaurisce in un’epoca determinata».
A sostegno di questa sua tesi dice che esiste un legame storico-vitale tra le culture mediterranee e il resto del mondo per la propagazione del messaggio cristiano. È un dato di fatto cioè che l’Europa sia concretamente il luogo di passaggio e di ponte tra l’Asia, dove il messaggio cristiano è nato, e il resto del mondo. Questo dato di fatto non è occasionale e estrinseco, ma manifesta il disegno e la responsabilità che l’Europa deve sentire per la diffusione del cristianesimo nel mondo intero. In questo si vedrebbe una esigenza addirittura teologica nel volere perseguire una unità europea. Teologica cioè di rapporto diretto con il piano storico concreto, voluto da Dio per la diffusione del suo messaggio di salvezza.
Da un punto di vista pastorale in quali attività occorre impegnarsi per realizzare un impegno comune in Europa?
C’è una ricerca di nuovi valori da parte di tutti. Non ci si rassegna al materialismo, all’edonismo, al benessere sfrenato, alla dimensione immanente della vita.
Si cercano nuovi valori, la pace, l’ecologia. Esiste tutta una serie di problemi nuovi, di nuove libertà, di nuovi compiti dello Stato, per le nuove società pluralistiche, di movimento di popoli che pongono nuovi problemi e la necessità di ricercare nuove soluzioni per affrontare le prospettive di un mondo che non resta fermo, ma evolve, stravolgendo ogni passata delimitazione e definizione.
È in questo quadro che si colloca l’esigenza avvertita dal Papa e dalle Chiese di una nuova, coraggiosa e coerente evangelizzazione. La nuova evangelizzazione non consiste nel rifare tutto da capo, quasi non avesse alcun valore il lavoro fatto nei secoli passati. La nuova evangelizzazione si pone in continuità organica e dinamica con la prima evangelizzazione.
Occorre essere consapevoli dell’importanza di innestare la rinnovata evangelizzazione su queste radici comuni dell’Europa. La nuova evangelizzazione dovrà quindi essere ecumenica; trovare e parlare un linguaggio evangelico comune per evangelizzare assieme l’Europa. Passare «da una fede di consuetudine, pur apprezzabile, a una fede che sia certa, personale, illuminata, convinta, testimoniante». La nuova evangelizzazione richiede, dice, il Cardinal Martini, la pazienza di curvarsi con amore e umiltà sulla nostra società – con tutte le sue miserie, fatiche e pesantezze – per aiutarla a vivere in rinnovata e maggiore pienezza il messaggio profondamente liberante del Vangelo.
Perché questo avvenga si richiedono alcune condizioni che il cardinale indica così:
Anzitutto il costante riferimento alla Parola di Dio e una profonda e quotidiana familiarità con essa da parte di tutti i fedeli.
Una puntuale opera e testimonianza di «autoevangelizzazione». Si tratta cioè, di essere anzitutto noi, in opere e in parole, un «Vangelo». Occorre che viviamo nella nostra parrocchia e nella nostra comunità l’esperienza visibile del Vangelo.
L’impegno intelligente e continuo per una nuova inculturazione del Vangelo, che significa l’intima trasformazione degli autentici valori culturali mediante l’integrazione nel cristianesimo e il radicamento del cristianesimo nelle varie culture. Concretamente per quanto riguarda l’Europa, che vive di razionalità scientifica, che è profondamente urbanizzata, che è radicalmente pluralistica, si tratta di trovare le strade per mettere il lievito del Vangelo in queste realtà.
Un’autentica collaborazione e comunione tra le diverse Chiese cattoliche del continente per un cammino vivo e comune.
Una sincera solidarietà con le altre Chiese cristiane d’Europa. La nuova evangelizzazione deve infatti essere una evangelizzazione ecumenica.
Un profondo, intelligente dialogo interreligioso, in particolare con l’ebraismo e con l’islam.
Da ultimo, è necessario riscoprire il ruolo e l’importanza dell’insegnamento della Chiesa. L’umanesimo cristiano, che pone la centralità dell’uomo dentro la storia, è da riscoprire e da sostenere, perché non la scienza, la tecnica, l’economia, ma l’uomo abbia un posto centrale in ogni organizzazione nuova.
Mentre come cristiani guardiamo alla realizzazione di un’Europa unita, dobbiamo essere consapevoli che il nostro continente è stato e deve continuare ad essere parte essenziale dell’orizzonte del mondo. Come un tempo l’Europa è stata il punto di partenza per una diffusa evangelizzazione del mondo, oggi l’evangelizzazione del mondo è legata alla rievangelizzazione del nostro continente.
Occorre non contrapporsi, ma ricercare ciò che unisce ed è nell’interesse comune per un progressivo cammino di integrazione.
Senza convergenza tra i cristiani molti problemi restano irrisolvibili. Occorre uno sforzo dei credenti per darsi mutuo aiuto nel vivere la fede nelle circostanze moderne. Tocca a loro sottolineare il primato dell’interiorità per realizzare l’unità. I credenti devono riscoprire la loro capacità non solo di esportare tecnologia e benessere, ma di approfondire il dono di Dio, che si è espresso nel loro passato attraverso una ricchissima storia e di riscoprire la sorgività dello Spirito che continuamente, oggi, si manifesta in mezzo a noi.

6.  Superare una falsa concezione della libertà

Poche parole sono abusate, travisate, tradite quanto la parola libertà. Troppi dicendo libertà pensano che sia fare quello che si vuole, non quello che ha una ragione d’essere. Confondono libertà con capriccio o semplicemente con spontaneismo, non riflettendo che un gesto spontaneo, lo starnutire ad esempio, non è libero, non dipende dalla mia libera scelta, non è voluto, è dovuto. Quante parole si sprecano per confutare sulla libertà.
Una scelta è libera quando dipende da me, che la so motivare e di cui mi rendo responsabile. Non c’è vera, autentica libertà senza responsabilità, senza la capacità di motivare e rispondere dei propri atti. È contro questa libertà irrazionale, senza ragione d’essere, capricciosa, che il Papa mette in guardia, quando denuncia «una concezione di libertà vista come facoltà di scegliere autonomamente senza orientamenti predefiniti, quindi come approvazione di ogni tipo di possibilità».
Il Papa denuncia una libertà che è indifferenza verso il bene o il male, la vita o la morte, il vizio o la virtù, il buono o il cattivo, che non sa distinguere e valutare, offrire le ragioni che devono sorreggere ogni scelta per essere umanamente libera, e non condizionata da interessi esterni. Purtroppo occorre riconoscere che una nozione così essenziale della rivelazione cristiana, come è quella di libertà, è stata scarsamente evidenziata nell’esperienza cristiana.
Anche nella Chiesa la libertà dev’essere valorizzata: non si possono imporre delle scelte, richiedendo ai fedeli supina adesione, dimenticando che il cristiano è chiamato alla libertà (cfr. Gal 5,13), cioè ad una adesione non imposta dall’esterno, ma motivata dal di dentro. Cristo ci ha liberati dalla legge, è l’insegnamento gioioso della Lettera ai Galati, che ci ricorda come non nell’imposizione esterna, ma nell’interiore adesione per amore si realizza la vera libertà.
Non dunque una libertà senza «orientamenti predefiniti», come dice il Papa, ma una libertà motivata dall’amore, dal richiamo del bene, dallo Spirito, che ci è stato donato e che ci libera dai condizionamenti della carne, del mondo, del peccato. Noi siamo liberi nella misura in cui ci orientiamo alle opere dell’amore verso Dio e verso il prossimo. Fatti liberi dal sacrificio del Signore Gesù morto e risorto per noi, noi siamo definitivamente liberi nella misura in cui aderiamo a lui. L’adesione al Signore Gesù, che ci mostra la verità di noi stessi e delle cose, ci fa liberi nelle nostre scelte.
Occorre rivalutare questa visione, evitando di parlare di obbedienza in contrapposizione alla libertà e cercando di mostrare il fascino di una vita, quella cristiana, che non ha più altro condizionamento, se non la motivazione dell’Amore.

7.  Far apparire il cristianesimo non come semplice moralismo, ma come dono

«Penso che abbiamo davanti un grande compito; da una parte, non far apparire il cristianesimo come semplice moralismo, ma come dono nel quale ci è dato l’amore che ci sostiene e ci fornisce poi la forza necessaria per saper ‘perdere la propria vita’; dall’altra, in questo contesto di amore donato, progredire anche verso le concretizzazioni, per le quali il fondamento ci è sempre offerto dal Decalogo che, con Cristo e con la Chiesa, dobbiamo leggere in questo tempo in modo progressivo e nuovo».
Il cristianesimo non è semplice moralismo, è dono. È incontro con un evento che ci deve sorprendere, è relazione con una persona che si dona, non si impone, non pretende, ma irrompe libera e si presenta con un progetto di novità che supera ogni legge.
Papa Benedetto ci invita a riscoprire il cristianesimo per quello che è: l’irrompere gratuito di una presenza che ci supera e ci coinvolge in una esperienza di libertà. Una precettistica minuziosa ed asfissiante, un bombardamento di precetti e prescrizioni ha finito per soffocare la bellezza dell’avvenimento cristiano, che è invece la comunicazione della vita in estrema abbondanza (cfr. Gv 10,10).
Il cristianesimo non è una legge, ma una persona, quella del Figlio di Dio venuto per donarci il vero Spirito che è «amore, pace, gioia» (Gal 5,22). Questo progetto divino si è fatto conoscere all’uomo nell’incarnazione della Parola eterna di Dio, che ha svelato a tutti il mistero della divina chiamata, rimasto nascosto nei secoli. Tutti gli uomini, senza distinzione, sono chiamati a formare un nuovo Corpo in Cristo Gesù (Ef 3,6). Questo è il dono che immette l’uomo nella vita trinitaria di Dio. Il Battesimo non è un rito di purificazione morale, ma l’immersione nella vita di Dio Padre, Figlio e Spirito.
Questo è il Vangelo che siamo invitati ad annunciare. Non un insieme di norme, di riti, di comportamenti, ma la condivisione della vita del nostro Dio, che ci è donata nel Figlio Gesù e nel suo Spirito.
È questo dono stupendo che dobbiamo saper proporre. Dio ama l’uomo e in Gesù si comunica a chi lo accoglie in uno scambio d’amore, tanto da poter dire con l’apostolo Paolo: «Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me» (Gal 2,20). Centrale nella nostra missione è la proposta di questo dono, è la scoperta di questa realtà, che, accolta, trasforma tutta la vita dell’uomo offrendogli gli orizzonti ultimi, i destini pieni.
L’invito del Papa riporta la nostra missione al suo cuore. Annunciare il dono del cielo che vale anche per chi non lo conosce, ma poterlo contemplare dà già in terra il centuplo, anticipa il traguardo verso il quale tendiamo, trasforma la nostra vita in contemplazione, dà senso al dolore e ci rende capaci di un ininterrotto rendimento di grazie, nonostante tutti i limiti e le fatiche del quotidiano.